Nel villaggio olimpico occupato, dove 750 rifugiati aspettano lo sgombero

19 gennaio 2015

TORINO – Sono le sette di venerdì sera quando Asanaine ci fa strada verso l’appartamento che da due anni condivide con altri quattro inquilini, al 191 di via Giordano Bruno, a Torino. Salendo le scale – illuminate solo da qualche riflesso lunare, oltre che dai led dei cellulari usati a mo’ di torcia – il freddo continua a condensare ogni respiro in nuvolette di vapore denso, che si fanno appena più lievi quando la porta di casa si chiude alle nostre spalle. Chi vuol stare al caldo, qui, deve procurarsi una stufa; ma i più stoici, come Asanaine, continuano a farne a meno anche in serate come questa, quando la temperatura si avvia bruscamente a calare sotto lo zero. “Ci sono abituato – spiega laconico – ho dormito all’aperto per settimane, primate di arrivare qui”.  “Quiè il complesso residenziale che, per via del Mercato ortofrutticolo che un tempo sorgeva sull’area, è conosciuto col nome di “ex-Moi”: un gruppo di palazzine alla periferia sud della città, che per anni sono rimaste inutilizzate dopo aver ospitato gli atleti delle Olimpiadi del 2006. Nel marzo del 2013, la struttura è stata occupata da centinaia di profughi arrivati dall’area metropolitana e da tutta la provincia di Torino. Settecentocinquanta persone di 26 nazionalità nelle palazzine occupate. Stando ai dati diffusi dal Comitato di solidarietà ai rifugiati, all’ex Moi vivono attualmente più di 750 persone di 26 diverse nazionalità: arrivati in Italia in seguito al crollo del regime libico o con le precedenti ondate migratorie dall’Africa, quasi tutti si sono ritrovati allo sbando allo scadere dei rispettivi progetti d’accoglienza. Questo ciclo, che ha inesorabilmente continuato a ripetersi anche dopo l’allargamento dei posti Sprar, ha fatto sì che nuovi migranti continuassero a bussare alle porte della struttura per tutto il periodo dell’occupazione: anche se quasi nessuno in città lo dice apertamente, da due anni l’ex-Moi è parte di un fragile equilibrio, che ha finora evitato che centinaia di profughi si riversassero, da un giorno all’altro, nelle strade di Torino. Per questo, la scorsa settimana, anche la giunta comunale è stata colta di sorpresa quando il Tribunale ha disposto il sequestro della struttura, raccomandando alla questura di mettere celermente a punto di un piano di sicurezza per arginare eventuali contestazioni al momento dello sgombero. Il timore è che possa scoppiare una rivolta come quella che a novembre incendiava la periferia romana di Tor Sapienza: ma sulle quattro palazzine stasera regna una calma irreale, che sa di attesa dell’inevitabile.

La storia di Asanaine, ex militare di carriera, fuggito dalla dittatura eritrea. “Tre giorni fa – spiega Asanaine – erano tutti nel panico. Qui dentro vivono famiglie con bambini piccoli, che in strada finirebbero per morire. Per quanto mi riguarda, se ci cacciano non potrò far altro che andarmene: ma io posso permettermi il lusso di pensare per me, perché mia moglie e i miei figli sono rimasti a casa”. Trent’anni, eritreo, pettinatura afro sulla stessa corporatura esile di molti dei suoi connazionali, con quegli occhi laconici Asanaine ha visto più cose nell’ultimo decennio di quante molti europei possano osservarne in una vita.  “A casa ero un militare di carriera, – ricorda – ma a un certo punto ho iniziato a sentirmi a disagio con quello che facevo. In Eritrea c’è una dittatura soffocante, che continua a negare al popolo il pane e i diritti civili. Io non volevo esserne più complice. La prima volta che mi hanno incarcerato era il 2005: si trattava di una piccola insubordinazione, e mi hanno lasciato uscire presto. Qualche tempo dopo, però, ho disertato, e quella volta in prigione ci sono rimasto per oltre un anno. Una volta uscito, nel 2010, era chiaro che il regime mi aveva bollato come nemico dello stato. A quel punto, scappare era diventata l’unica opzione”.

La storia di Hermes, prossimo alla laurea in Ingegneria delle telecomunicazioni. Nel perimetro delle quattro palazzine, sembra quasi ricostruita la geografia delle aree di crisi che continuano a sputar fuori dissidenti e cittadini scomodi lungo il corridoio del Mediterraneo. “Lì dentro vengono quasi tutti dal Corno d’Africa” spiega Hermes, ragazzone etiope sulla trentina, mentre indica la facciata dell’edificio di Asanaine. “Nel mio palazzo, invece, molti vengono dal Mali, dal Niger, dalla Nigeria e dal resto dell’Africa occidentale”. In Etiopia, Hermes era un attivista del Kinijit, partito d’opposizione bollato dal governo come organizzazione terroristica dopo le elezioni del 2005. “I nostri leader sono stati incarcerati con l’accusa di voler rovesciare il governo” ricorda. “Io e miei amici – continua – in prigione ci siamo rimasti per una settimana. Appena rilasciati siamo fuggiti in Sudan; ma il loro governo si era accordato con il nostro, e così ci hanno rispediti indietro. Tornati a casa, la polizia ha scovato, torturato e ucciso molti dei miei amici. Io allora sono scappato di nuovo, a Tripoli: ci sono rimasto un paio d’anni, senza documenti e col lavoro che scarseggiava. Poi mi sono imbarcato per Lampedusa”. Una volta in Italia, Hermes viene trasferito in un programma d’accoglienza a Parma: “Ho fatto corsi da tornatore, da fresatore, da magazziniere. Avrò preso cinque attestati senza mai trovare un lavoro. Allora sono venuto a Torino, per studiare Ingegneria delle telecomunicazioni con una borsa di studio”. Peccato però che, dopo appena un anno, Hermes sia finito tra gli 8 mila studenti che, pur essendo dichiarati “idonei”, non hanno più ricevuto alloggio né sovvenzioni in seguito al taglio delle borse di studio disposto dalla ex Giunta Cota. “È stato allora – continua – che sono finito a vivere in strada. Ho dormito sotto i ponti, in stazione, sulle panchine dei parchi. Sono stato in un’altra occupazione, ma dopo qualche mese ci hanno sgomberato. E alla fine un amico mi ha portato qui: per la prima volta dal 2006 ho dormito per due anni di seguito sotto lo stesso tetto. E ti dico una cosa: io da qui non me ne andrò facilmente. Non ne posso più di fuggire, mi manca un anno alla laurea e non voglio tornare in strada. Che mi portino via con la forza”.

L’accusa di spaccio di droga nelle palazzine occupate. Pur con tutte le difficoltà del caso, per due anni l’ex-Moi ha restituito una parvenza di stabilità ai suoi 800 occupanti. Dopo qualche attrito iniziale, rifugiati e residenti del quartiere hanno raggiunto una convivenza pacifica, più volte testimoniata anche dal presidente di circoscrizione, Giorgio Rizzuto (Pd). Finché, tra novembre e dicembre scorsi, mentre sugli schermi tv ancora rimbalzavano le immagini della rivolta di Tor Sapienza, i gruppi consiliari di Lega e Fratelli d’Italia hanno preso a rimpallarsi una serie di iniziative per denunciare il degrado che l’occupazione avrebbe portato nella zona. La mattina del 24 novembre, dopo un primo presidio guidato da Maurizio Marrone (FdI), il capogruppo del Carroccio torinese, Fabrizio Ricca, segnalava sul suo profilo Facebook che “all’ex Moi si spaccia, e ne abbiamo le prove”. La prova sarebbe contenuta in un video che Ricca afferma di aver girato di fronte alle palazzine: volti e località sono oggettivamente irriconoscibili; tutto ciò che si può distinguere è la voce del consigliere mentre si accorda per comprare qualche grammo di marijuana da alcune persone con accento presumibilmente africano. Sull’onda delle accuse di Ricca, nei weekend del 13 e del 20 dicembre, Fratelli d’Italia e Lega hanno indetto altre due manifestazioni, la seconda delle quali guidata dal neosegretario leghista Matteo Salvini, che in piazza Galimberti ha denunciato “lo spaccio, il degrado, la probabile presenza di clandestini e la complicità dell’amministrazione di sinistra con profughi e centri sociali”. Sostanzialmente disertate degli abitanti della zona, le manifestazioni hanno creato nel quartiere un clima di tensione che stava appena iniziando a scemare, quando il Tribunale di Torino ha diffuso la notizia del sequestro. 

Nessun futuro per i profughi. “Io non so se qui dentro qualcuno spacci” ammette Asanaine. “Per quanto riguarda i miei conoscenti, sono sicuro che loro non lo fanno. Ma non è una cosa su cui troverei molto da ridire, in fondo. Siamo onesti, in Italia per noi non c’è futuro: dal momento stesso in cui arrivi, non fanno altro che sbatterti in faccia dei limiti, finché ad arrivare al limite non sei tu stesso. La prima cosa che fanno, dopo averti preso le impronte digitali, è farti firmare un foglio che dice che dall’Italia non potrai più muoverti. Ti tengono qualche mese in una struttura e ti fanno fare decine di corsi, ma in un modo o nell’altro ti fanno capire che per te non ci sarà lavoro. Poi, un bel giorno, ti consegnano i documenti e ti fanno firmare un altro foglio, dove c’è scritto che, da quel momento, qualsiasi cosa ti capiterà saranno affari tuoi. Dopodiché, sei da solo. Devi arrangiarti”. “A volte – conclude – ci ho pensato anch’io a mettermi in contatto con la criminalità organizzata. A febbraio del 2013 , quando dormivo sulle panchine del Parco del Valentino, ci pensavo tutti i giorni. Ma, ripeto, io qui non ho una famiglia e posso ancora prendermi il lusso di rispondere alla mia coscienza. Non ho scelto di nascere in Eritrea, ma so anche che non è colpa di nessuno; quindi non ho mai preteso che mi dessero un lavoro stabile, qui. L’unica cosa che pretendo è il rispetto, la considerazione che si deve a ogni essere umano: e se ora ci sbattono di nuovo in strada, allora vuol dire che al vostro governo non frega niente di noi. Che quello che chiamano ‘protezione umanitaria’ si riduce a una serie di documenti da firmare. E che in fondo non serve a nulla. (ams)

© Copyright Redattore Socialeex moiex moi 1

Iniziamo gli incontri con le scuole: Liceo Cattaneo

Il giorno 16 Gennaio ci siamo recati presso il Liceo Scientifico Cattaneo,in Piazza Massaua,dando inizio ai vari incontri nelle scuole.Ad aspettarci abbiamo trovato una ventina di ragazzi.Il nostro scopo era quello di divulgare la voce riguardo al Moi, come e quando è nato, da chi è occupato e come vivono all’interno di esso.Con noi sono venuti rifugiati sia dell’Ex Moi che delle Salette,i quali, con i loro interventi hanno dato luogo ad un dibattito intenso e interessante.Terminate le presentazioni iniziali,abbiamo fatto una breve cronistoria dell’Ex Moi accompagnata dalle dichiarazioni e testimonianze dei rifugiati stessi, che hanno indubbiamente colpito i ragazzi.Interessati e coinvolti hanno posto diverse domande, chiedendo come poter aiutare e interagire con noi be o rifugiati. Infine abbiamo terminato il nostro incontro, nel migliore dei modi,a ritmo di musica,grazie ai nostri ottimi musicisti. A breve terremo altri incontri in altre scuole e li affronteremo con lo stesso ottimismo e positività di sempre.incontro liceo cattaneo
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Sullo sgombero, un po’ di chiarezza

La procura di Torino chiede di sgomberarli, come se si trattasse di immondizia. Invece si sta parlando di 750 persone, il 15 per cento donne e una trentina di bambini. Molti dei rifugiati sono scappati dalla guerra in Libia e sono finiti in strada a marzo 2013, esauriti i fondi dell’Emergenza Nord-Africa. Questi esseri umani, provenienti da 26 paesi africani, hanno trovato rifugio nelle quattro Palazzine dell’ex Villaggio Olimpico, abbandonate da 7 anni. Il comune non era riuscito a farle fruttare perché costruite male, ma con soldi pubblici. La procura non ha mai indagato su impianti, struttura o ditte appaltatrici.

Sappiamo che questa indagine e sequestro non significano sgombero imminente, un giudice autorizza lo sgombero ma sta alla politica decidere i tempi. Lo sgombero eseguito con la forza significa scontrarsi con i rifugiati e il comitato, con coloro che difendono il diritto a un tetto per tutti. Effettuare lo sgombero con la forza vuol dire che la politica non può dare alternative: tutti fuori e basta. Intanto i giornali creano la solita confusione: lo sgombero non avverrà domani. Crediamo che sia poco fattibile ributtare centinaia di persone in strada. L’unica altra modalità con cui la politica tratta i rifugiati sono i progetti. Uno sgombero assistito tuttavia costa caro, comporta offrire un’alternativa agli occupanti. Inoltre la storia delle occupazioni torinesi di rifugiati insegna che gli sgomberi assistiti finiscono male. Pensiamo a Corso Peschiera, dove alla fine di innumerevoli tavoli molti sono finiti in strada.
Nessuna delle due è una buona prospettiva.

Nelle palazzine olimpiche molti hanno cominciato ad avere una vita stabile: un posto dove tornare dopo il lavoro nelle campagne di Saluzzo o Rosarno, piccole borse lavoro, una famiglia e un comitato di solidali pronti ad aiutarli. Qui molti per la prima volta hanno imparato l’italiano, insegnato da volontari in collaborazione con i CTP (Braccini e C. di Mirafiori).

FdI, Lega e FI non aspettavano altro che la parola sgombero su un giornale, vogliono vedere in questa occupazione solo illegalità e degrado, vogliono incastrare il comune. Troviamo ridicolo attaccarsi alle poche liti avvenute in quasi due anni.
La realtà è che nessuno dei cittadini si sente minacciato, prova è che ogni iniziativa antidegrado è stata un flop. Molti sono i cittadini che collaborano con gli abitanti e gli stessi rifugiati sono in grado di autoregolarsi. Non regna il caos, i rappresentanti (1 o 2 per appartamento) si incontrano regolarmente per affrontare problemi comuni e per confrontarsi con il comitato di solidarietà che offre supporto medico, linguistico e legale. Si è instaurato un dialogo con la circoscrizione, unica istituzione che ha rotto il silenzio e che è in contatto con alcuni dei rappresentanti. La collaborazione con AMIAT ha permesso di rimuovere le barriere, sistemare il cortile e ripulire l’area.

Durante questo percorso di quasi due anni si è creata una rete di collaborazione e supporto con alcune realtà del territorio: CSOA Askatasuna, CSOA Gabrio, Pastorale Migranti, Ingegneri senza Frontiere, Microclinica Fatih, Frantz Fanon, Mamre, Gruppo Abele, Sermig, Anpi sez. Lingotto. Tutti solidali con l’occupazione, unica reale soluzione per i rifugiati a Torino, una volta finiti i progetti.
Ricordiamo infatti che in una nota del 23 maggio l’UNHCR scriveva che “sono migliaia i rifugiati costretti a vivere in palazzi abbandonati e occupati nelle principali città italiane quali Roma, Milano, Torino, a causa dell’inadeguatezza dell’accoglienza e dell’insufficienza dei progetti di integrazione”. A Torino sono oltre il migliaio in 8 diversi palazzi.

Lo stato italiano ha scelto di perseguire chi dovrebbe proteggere, preferendo tutelare il diritto alla proprietà piuttosto che i diritti umani.

In questi giorni ci confronteremo con gli abitanti, determinati e uniti nel difendere il diritto alla casa di tutti e tutte.

Infine alcune precisazioni per chi fosse venuto solo ora in contatto con l’exMOI:

  • Gli abitanti sono rifugiati con vari permessi di soggiorno. Non clandestini terroristi. Faticano ogni giorno per rinnovare il permesso, che costa loro tra i 100 e i 250 euro ogni rinnovo. Per molti il rinnovo è annuale, a molti infatti è stato categoricamente dato il permesso umanitario senza realmente analizzare la loro domanda di asilo.
  • Il nostro comitato è costituito da studenti, lavoratori e precari italiani e immigrati. Siamo vicini ai centri sociali Askatasuna e Gabrio in quanto uniche realtà che si occupano concretamente di supportare rifugiati e migranti. Questi sono gli unici che hanno creduto nella lotta per la residenza e che portano avanti battaglie in cui crediamo.
  • Le 4 palazzine occupate sono state vuote per anni e non avevano nessuna destinazione d’uso, men che meno essere date agli italiani, per questo sono state al Fondo città di Torino. Questo paga acqua e luce, non i contribuenti.
  • Le liti avvenute erano sempre a sfondo personale, nessuna aveva motivazione etnica o religiosa. Molti appartamenti sono infatti condivisi tra nazionalità e religioni diverse.

Prossimi appuntamenti

  • Venerdì 16 Gennaio – h.8-14 – Liceo Cattaneo: Laboratorio e discussione sull’immigrazione e i rifugiati.
    In occasione dell’autogestione del liceo, gli studenti incontrano i rifugiati di ExMoi e Salette e il comitato di solidarietà. Discussione, proiezione video e musica.
  • Sabato 17 Gennaio – h.19 – Salette Occupata (via delle salette 12/a): Festa di compleanno delle Salette.
    Un anno fà nasceva l’occupazione di rifugiati di via della Salette. Prima che parta il progetto che vedrà la legalizzazione dell’edificio e l’autogestione degli abitanti, creiamo un ultimo momento di socialità, per ricordare la natura degli spazi liberati.
    Evento FB
  • Giovedì 29 Gennaio (da confermare) – h.8-14 – Liceo Regina Margherita: Laboratorio e discussione sull’immigrazione e i rifugiati.
    In occasione dell’autogestione del liceo, gli studenti incontrano i rifugiati di ExMoi e Salette e il comitato di solidarietà. Discussione, proiezione video e musica.

Precisazioni sul progetto alle Salette occupata

In questi giorni abbiamo divulgato la notizia del progetto per l’occupazione della Salette. Consigliamo la lettura dell’articolo di redattore sociale, al momento uno dei più accurati per inquadrare la faccenda. Lo trovate QUI.

Ricordiamo che l’occupazione di via madonna delle salette 12/a è stata promossa dal nostro comitato e dai centri sociali Askatasuna e Gabrio nell’ambito della settimana di mobilitazione per il diritto alla casa a gennaio 2014. All’epoca avevamo scritto un volantino, un passaggio dice:

Abbiamo deciso, assieme a famiglie italiane e immigrate colpite dalla crisi, di costruire una settimana di mobilitazione per ridare dignità e casa a tutti e tutte, riappropriandoci di edifici abbandonati come quello in via Delle Salette. Un edificio vuoto appartenente ai missionari Salettiani, che da oggi riprende vita.

I nuovi occupanti erano per la maggior parte abitanti dell’exMOI, molti di loro vivevano nelle cantine o in stanze troppo affollate. In pochi mesi abbiamo migliorato l’impianto elettrico e riattivato quello idraulico, creato un orto in giardino, aperto una ciclofficina e uno sportello settimanale per aiutare altri migranti. Gli occupanti si sono autoregolati e hanno come organo un’assemblea settimanale. Ogni decisione è stata presa consultandola.

Nel frattempo il dialogo con la proprietà è andato avanti. Innanzi tutto per la necessità pratica di avere la luce: 10kw sono pochi per 70 persone e l’elettricità salta spesso. Essere in buoni rapporti è importante. Poi perché, dopo un primo momento di scontro, la stessa proprietà ci è venuta incontro proponendoci di fare un progetto insieme. Lo stupore di avere un interlocutore così disponibile e la possibilità di creare qualcosa di più strutturale ha fatto si che il dialogo andasse avanti. Da subito abbiamo posto delle condizioni al progetto, che sono state ripetute all’incontro ma ignorate dalla stampa. Il progetto:

  1. Non deve avere finalità di lucro. Nessuno deve guadagnarci.
  2. Deve includere tutti gli occupanti. Nessuno viene sbattuto fuori.
  3. I lavori di ristrutturazione devono mirare a rendere il costi di gestione minori possibile. Si paga il meno possibile.
  4. I lavori di ristrutturazione vanno effettuati senza che nessuno debba dormire fuori. Nessuno esce.
  5. I lavori di ristrutturazione devono essere effettuati in modo di includere il più possibile la manodopera degli abitanti secondo principi di autorecupero. Chi ci vive ci lavora.
  6. I tempi di permanenza devono essere secondo i livello di lingua e il livello di reddito, non secondo tempistiche prestabilite. Nessuna accoglienza a tempo determinato.
  7. Deve prevedere attività di inserimento lavorativo e/o un’attività che generi reddito per coprire il più possibile i costi di gestione. Nessuno esce perché non ha i soldi per restare.
  8. La gestione deve essere condivisa con gli abitanti, rispettando le decisioni prese dall’assemblea. Questo deve rispecchiarsi nella costituzione formale e nella permanenza di spazi comuni dedicati. L’assemblea va rispettata.
  9. Tutti i precedenti punti e le decisioni che porteranno ad attuarli sono da porre al vaglio dell’assemblea degli occupanti che sono liberi di modificarli a piacimento. Decidono gli abitanti.

Il progetto è quindi non precostituito ma in fieri, viene scritto da chi ci vive tenendo conto delle precedenti esperienze. Le maggiori paure non sono quelle di avere un interlocutore disonesto, ma che nessun progetto possa mai essere tanto ben fatto da risolvere i problemi strutturali della realtà dei migranti in italia. Primo ostacolo tra tutti è la solvibilità economica: come chiedere soldi a un soggetto che viene derubato ogni giorno. Conosciamo bene le realtà di precarietà lavorativa (Saluzzo, Foggia, Rosarno…) e il costo del rinnovo del permesso di soggiorno (tranquillamente oltre i 100 euro). Sappiamo bene inoltre che l’apertura delle frontiere e la chiusura dei CIE sono la reale soluzione per chi è prigioniero nel nostro paese.

Detto ciò queste condizioni sono, secondo noi l’occasione per mostrare la buona via ai progetti per rifugiati. Inoltre sono un rimedio al lato meramente “assistenziale” del nostro lavoro politico, poichè se realmente esiste una possibilità di autogestione da parte dei migranti questa non ha ancora una forma istituzionale. Da 2 anni ormai il nostro comitato rincorre le emergenze e supporta centinaia di rifugiati. Le occupazioni sono da sempre una delle migliori soluzioni per i rifugiati, ma quando manca un soggetto che li supporti queste cadono nel dimenticatoio. Se in futuro mancherà qualcosa di simile al nostro comitato potrebbero venire a mancare questi percorsi di autogestione.

Dato che chi ci ha incontrato ha mostrato rispetto per le nostre proposte, per la nostra attività e le nostre decisioni, abbiamo deciso di provare questa strada. Ciò non comporta assolutamente l’abbandono del percorso politico con i rifugiati che si rende ancora più vitale, data la nostra presenza all’exMOI.

Infine, alcune precisazioni rispetto a ciò che potete aver letto su articoli di vari giornali.
Nessuno di noi ha mai dato un nome al progetto, sicuramente non “Trasformare l’inopportuno in opportunità”.
Caritas è il finanziatore, ma né il comitato né gli occupanti hanno mai incontrato un suo rappresentante. L’unico rappresentate della proprietà che abbiamo incontrato è il prete, padre stanislao. L’interlocutore principale è sempre stata l’Unione Pastorale Migranti con cui non sono mai state prese decisioni senza informare l’assemblea degli abitanti.